Nel Documento Programmatico di Bilancio (DPB) 2018 approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 16 ottobre, un capitolo è dedicato all’occupazione. I toni sono volutamente ottimistici.
“Guadagni significativi per l’occupazione nel 2017, la crescita è attesa continuare”
Alle parole segue un grafico che, come abbiamo già visto per il PIL, ci comunica che la crisi è dietro le nostre spalle. Siamo tornati realmente in termini di occupati ai valori pre-crisi come il grafico suggerisce?
Prima di rispondere alla domanda, guardiamo anche il dato sul tasso di disoccupazione. In questo caso è lo stesso documento governativo ad ammettere che:
Il tasso di disoccupazione medio nel 2016 è stato dell’11,7 per cento e dovrebbe scendere all’11,2 per cento quest’anno e poi diminuire gradualmente al 9,8 per cento nel 2020. Potrebbe quindi richiedere molti altri anni per tornare al livello pre-crisi del 6,1 per cento nel 2007.
Infatti il tasso di disoccupazione dal 2015 è fermo all’11%, anche se la retorica sulle riforme del mondo del lavoro ha fatto credere a tanti che nel tempo sarebbe diminuito.
Ma quello che è successo è esattamente quello che doveva succedere. Le riforme del mercato del lavoro non hanno inciso sulla riduzione dei disoccupati ma sul loro stato occupazionale tanto da far crescere i contratti di lavoro a tempo determinato.
La flessibilità del mercato del lavoro, prescritta dalla BCE nel 2011 con la lettera a firma Mario Draghi e Jean-Claude Trichet , ha permesso di trasferire gli occupati verso i settori produttivi dell’export ad esclusivo vantaggio e profitto delle stesse industrie di esportazione ma non dei disoccupati. Infatti il tasso di disoccupazione non è diminuito.
Anche il dato sulla disoccupazione giovanile inchioda le politiche governative al proprio fallimento: una percentuale superiore al 35% indica che 1 giovane su 3 tra tutti quelli disposti a lavorare non lavora.
La disoccupazione a lungo termine (disoccupazione da più di 12 mesi) è stazionaria
Come il numero assoluto dei disoccupati
Se incrociamo gli ultimi due dati emerge che la metà dei disoccupati italiani, ovvero circa 1,5 milioni di lavoratori non ha uno stipendio da oltre un anno.
Aumenta anche la disuguaglianza. Il grafico sull’andamento del tasso di disoccupazione dal 2004 al secondo trimestre del 2017 a livello regionale sta a rappresentare la caporetto delle politiche governative. È aumentato il divario tra le regioni Italiane: nel 2007 il tasso di disoccupazione era compreso tra il 2,37% di Bolzano e il 13,69% della Sicilia, mentre oggi la forbice tra le due regioni si è drammaticamente ampliata, tra il 3,3 % di Bolzano e il 22,10% della Sicilia.
La spaccatura sociale del nostro paese riflette la spaccatura creata in Europa tra nord e sud. Le politiche di austerità sono funzionali a rimarcare la disparità producendo una disgregazione sociale che condannerà l’Europa all’instabilità sociale e politica.
Sino a qui abbiamo visto i risultati delle politiche occupazionale, o meglio dis-occupazionali, attuate dal governo su input dell’Unione Europea. Ma quali sono gli interventi presenti nella legge di bilancio orientate a ridurre la disoccupazione?
- incentivi strutturali all’occupazione giovanile
- sgravi contributivi per coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali under 40
- agevolazioni per assunzioni a tempo indeterminato nel Sud
Il presupposto, dichiarato nel documento, è di fornire maggiori certezze nella determinazione del costo del lavoro e favorire l’inserimento stabile di nuovi lavoratori nel mondo del lavoro.
Ancora una volta la politica economica neoliberista propone esclusivamente riforme strutturali volte a modificare la struttura dell’occupazione e non ad aumentarla. Nessun imprenditore creerà un solo posto di lavoro in più solo perché può usufruire delle agevolazioni, ma sfrutterà le agevolazioni nel momento in cui dovrà assumere qualcuno e assumerà quando, per soddisfare la richiesta, dovrà produrre di più. Le riforme incidono semmai sul CHI assumere ma non sul QUANTI assumere.
Quanti lavoratori assumere dipende dalla domanda aggregata, la quale a sua volta dipende dalla quota dei redditi che si trasformano in consumi. La spesa pubblica dello Stato è dunque la variabile che maggiormente influisce sull’andamento dell’occupazione.
Quando mettiamo 90 ossi a disposizione di 100 cani, il 10% dei cani rimarrà sempre senza osso qualunque sia la politica di selezione dei cani o i vantaggi concessi a qualche cane giovane rispetto agli altri.
Nel documento programmatico è scritto nero su bianco, ancora una volta, che in Italia il 10% dei lavoratori DEVE rimanere senza lavoro. Infatti nella nota metodologica, parte integrante del documento, è inserita la seguente affermazione:
“ Per il calcolo del tasso di disoccupazione strutturale (Non Accelerating Wage Rate of Unemployment – NAWRU) sono stati utilizzati i parametri riportati nella Tabella IV.2-1.”
Ai meno informati può sembrare una semplice nota tecnica invece è uno dei punti più significativi del modello liberista, per il quale per evitare che l’inflazione acceleri nella crescita il tasso di disoccupazione strutturale deve restare al di sotto di una certa soglia. Questo tasso di disoccupazione dovrà essere, anche per i prossimi anni, superiore al 10% per fermarsi nelle migliori delle ipotesi al 9,8% nel 2020.
Per essere ancora più chiari, il governo attribuisce a quella nota metodologica un valore superiore al primo articolo della Costituzione che inequivocabilmente sancisce il lavoro come primo diritto dei cittadini.
L’intero documento programmatico di bilancio, frutto del modello liberista sul quale si fonda l’eurozona, calpesta la Costituzione attribuendo all’inflazione un posto di rilievo nella scala dei valori, rispetto alla dignità del lavoro.