Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi
[Il Gattopardo – Giuseppe Tomasi di Lampedusa]
NO.
NO, il renzismo non è il nuovo. Il renzismo è il vecchio che avanza, e ne daremo evidenza.
NO, la riscrittura della Costituzione non è una riforma, ma una controriforma.
NO, votare Sì al referendum confermativo non porterà alcun cambiamento, ma porterà alla soluzione, ahimè non finale, dello smantellamento del welfare che lotte civili e Guerre Mondiali avevano contribuito a creare.
NO, le riforme renziane (del lavoro, elettorale, scolastica, bancaria) concludono la lotta di classe dall’alto verso il basso che si è combattuta in Italia negli ultimi quarant’anni. La riscrittura della Costituzione rappresenta il tentativo di codificare la vittoria della classe dominante sulla classe soccombente.
Questo tentativo non inizia oggi.
Il mito del vincolo esterno
La data simbolica da cui voglio partire è il 9 maggio 1978, giorno in cui fu ritrovato il corpo di Aldo Moro.
Perché Moro era stato uno dei padri costituenti nel 1947, quando furono costituzionalizzate le conquiste delle lotte sociali e dell’antifascismo dei decenni precedenti che avrebbero garantito trent’anni di crescita economica, benessere e livelli di welfare mai goduti prima in Italia.
Dopo la scomparsa di Moro, le classi percettrici di rendite finanziarie iniziarono a professare il mito del “vincolo esterno”, ossia il convincimento che gli Italiani non siano in grado di autogovernarsi e necessitino pertanto di una qualche entità sovranazionale che faccia il loro bene.
Con l’Italia distratta e scioccata dall’uccisione di Moro, gli equilibri politici mutarono e si crearono le condizioni per l’entrata dell’Italia nel costituendo Sistema Monetario Europeo, progenitore dell’euro, che imponeva un cambio pressoché fisso tra le valute dei Paesi aderenti con bande di oscillazione percentuale più o meno ampie. La firma del trattato costitutivo avvenne il 13 marzo 1979.
Il vincolo sul cambio si accompagnava inevitabilmente alle “riforme strutturali” tanto care al liberismo: lotta all’inflazione, compressione salariale, limitazione del disavanzo pubblico; tutte riforme realizzate e perfezionate negli anni successivi, come vedremo. Intanto il vincolo sul cambio sferrò un primo grosso colpo alla Costituzione del 1948, costringendo lo Stato a politiche di bilancio restrittive.
Il divorzio Tesoro – Banca d’Italia
Nel febbraio 1981, tramite un semplice scambio di lettere tra l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta ed il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azelio Ciampi, si consumò il cosiddetto “divorzio” tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia.
In sostanza, concordarono di esonerare la Banca d’Italia dall’acquisto dei titoli di Stato rimasti invenduti. L’ovvia conseguenza fu la perdita di controllo sul livello dei tassi d’interesse dei titoli pubblici (determinati ora dai mercati) e la successiva esplosione del debito pubblico, che decuplicò in 10 anni quasi esclusivamente a causa degli alti tassi d’interesse, e non per sostenere gli obiettivi costituzionali.
Ovviamente il tutto si tradusse in una graduale riduzione della presenza dello Stato nell’economia e, contemporaneamente, in un forte indebitamento di enti ed aziende pubbliche. I principi scolpiti nella prima parte della Costituzione iniziarono a vacillare sotto i colpi dell’ideologia neoliberista, ormai dominante in ambito accademico e finanziario.
Il Piano di Rinascita Democratica della P2
Il 4 luglio 1982 venne ritrovato, nel doppiofondo di una valigia della figlia di Licio Gelli – “capo” della loggia massonica Propaganda 2 –, un documento intitolato “Piano di Rinascita Democratica”, che descriveva il piano piduista di riforme strutturali e costituzionali.
A distanza di quasi trentacinque anni, è impressionante constatare quanti dei punti di quel programma siano stati realizzati (dalla realizzazione del bipartitismo all’abolizione del monopolio della RAI, dall’istituzione della Bicamerale per le riforme alla responsabilità civile dei magistrati e tanti, tanti altri). Ed altri, tra quelli non realizzati, stanno per esserlo con la riforma costituzionale Renzi-Boschi: ripartizione di competenze tra Camera e Senato, riduzione del numero dei parlamentari, abolizione delle Province, rafforzamento del Governo.
Primo Governo Craxi
Il 21 luglio 1983 si inaugurò il primo Governo Craxi, che tra i temi centrali della sua azione annoverava la governabilità e la prevalenza del potere esecutivo su quello legislativo. Esattamente quelli su cui è impostata l’odierna riscrittura costituzionale.
Fu fautore di riforme volte al superamento dell’assetto istituzionale del 1948, insieme ad una “modernizzazione” dello Statuto dei Lavoratori e ad un aumento del potere del Governo a scapito di quello del Parlamento. Nulla di nuovo sotto il sole.
Craxi fu anche interprete del primo grosso attacco al salario dei lavoratori con il cosiddetto “decreto di San Valentino” del 14 febbraio 1984, con il quale furono tagliati 4 punti di scala mobile. L’aumento del costo della vita non fu più protetto interamente dall’indicizzazione dei salari.
Ma il 31 luglio 1992 ci pensò il suo più stretto collaboratore, Giuliano Amato, ad abolire completamente l’indennità di contingenza per tutti i lavoratori dipendenti, proseguendo con l’attacco all’art. 36 della Costituzione. Attacco portato alla conclusione finale con il Jobs Act renziano.
La caduta del Muro di Berlino
Il 9 novembre 1989 si verificò l’evento simbolico della vittoria dell’economia neoliberista privata su quella pianificata statale: la caduta del muro di Berlino e la susseguente riunificazione della Germania.
Da lì in poi non ci fu più la necessità di mantenere un elevato livello di welfare per dimostrare che il modello capitalista era superiore a quello socialista.
Così tre giorni dopo il PCI, il più grande partito comunista occidentale, annunciò l’avvio del proprio scioglimento alla Bolognina, nel segno di una mutazione liberal-democratica che diverrà gradualmente totale assorbimento dei principi neoliberisti.
Con il suo scioglimento, avvenuto il 3 febbraio 1991, iniziarono a scomparire i partiti dell’arco costituzionale, quelli che avevano partecipato alla scrittura della Costituzione del 1948 e che la stagione di Mani Pulite farà estinguere totalmente.
Cadute le motivazioni ideologiche, la classe dirigente della sinistra italiana sempre più ebbe a cura gli interessi per la propria carriera piuttosto che quelli della classe lavoratrice che avrebbe dovuto rappresentare. Sino a divenire il più fedele sostenitore della finanza internazionale, raggiungendo toni parossistici con il Partito Democratico.
Il trattato di Maastricht
Questo trattato realizzò il disegno liberista di estirpare il lavoro dalla Costituzione restituendolo al mercato e di ridurre lo Stato ai minimi termini. L’arma letale per raggiungere tali scopi fu l’euro, tramite cui parte della sovranità delle democrazie nazionali fu consegnata nelle mani delle tecnocrazie finanziarie sovranazionali, riducendo così gli Stati a mere colonie.
Con il trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992, l’Italia iniziò a percorrere il cammino verso la perdita della capacità di emettere valuta, che la costringerà quindi a cercare altrove le risorse finanziarie necessarie per i suoi obiettivi alla stregua di una qualsiasi impresa privata o di un comune cittadino. Una parte fondamentale della sua sovranità, la capacità di creare valuta, nel giro di pochi anni venne ceduta alla Banca Centrale Europea (BCE), progettata per essere totalmente indipendente dal potere politico democratico. Anzi, come ormai sappiamo, poco alla volta sarà sempre più la BCE a dettare la linea politica ai diversi Stati aderenti all’Unione Economica e Monetaria Europea.
A dire il vero, l’art. 11 della nostra Costituzione avrebbe consentito esclusivamente limitazioni di sovranità, e non cessioni, cosa che invece puntualmente avvenne con la cessione della sovranità monetaria. Inoltre l’art. 11 lo consentirebbe solo in condizioni di reciprocità, condizione anch’essa non verificata in quanto l’Italia è costretta al rispetto di vincoli quali i “parametri di Maastricht” mentre altri Paesi ne sono esentati (es. Svezia, Danimarca, ecc.).
Il rispetto dei parametri di Maastricht espropria il Governo degli strumenti di politica economica che avevano permesso lo sviluppo industriale italiano del dopoguerra ed il posizionamento dell’Italia tra le maggiori potenze industriali del mondo.
A seguito della sottoscrizione del trattato di Maastricht partirono una serie di riforme tese a rimodellare la società italiana:
- demonizzazione dell’inflazione ed assegnazione della priorità alla stabilità dei prezzi,
- concorrenza e competitività in tutti i settori,
- abbattimento dei confini nazionali per consentire la totale libertà di movimento di capitali, merci e persone,
- deflazione salariale orientata all’esportazione,
- privatizzazioni del sistema industriale, del sistema finanziario e dei servizi.
Privatizzazioni privatizzazioni
Considerando la natura eminentemente finanziaria della costituenda Unione europea, il primo settore ad essere oggetto delle mire dei “mercati” fu il sistema bancario.
Il processo prese il via con la Legge Amato del 30 luglio 1990. Fino a tale data il sistema bancario italiano era eminentemente pubblico e contava tre banche di interesse nazionale (Banca Commerciale, Banco di Roma e Credito Italiano) facenti capo all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Sistema che aveva agevolato il finanziamento del sistema industriale e tramite cui lo Stato era potuto di intervenire direttamente nell’economia per realizzare obiettivi occupazionali e di sostegno al reddito, come prescritto dagli articoli fondamentali della Costituzione.
Come al solito, questa legge fu indotta da un “vincolo esterno”: l’adeguamento all’accordo Basilea 1, teso a dare maggiore competitività alle banche italiane sui mercati nazionali ed internazionali. Il modello di riferimento promosso dalla legge fu quello della società per azioni (di diritto privato e non più pubblico), quindi facilmente scalabile da capitali privati.
Ma a dare il colpo di grazia alla presenza dello Stato nell’economia fu naturalmente il trattato di Maastricht: sottostando ai suoi vincoli ed osservandone le regole sulla libera concorrenza, l’Italia fu costretta ad avviare la cessione sia del suo sistema bancario, sia del suo sistema industriale pubblico.
Ciò avvenne attraverso la progressiva demonizzazione ed il successivo smantellamento dell’IRI, artefice della modernizzazione del Paese e del miracolo italiano nel dopoguerra con lo sviluppo dell’industria siderurgica, della rete telefonica e della rete autostradale.
Così, oltre a tutte (TUTTE) le banche, nel giro di dieci anni molti gioielli industriali pubblici furono dapprima trasformati in SPA e poi svenduti al capitale privato nazionale e internazionale: Banca Commerciale, ENI, Credito Italiano, ENEL, Istituto San Paolo, INA, Banco di Roma, ILVA, casse di risparmio, Alfa Romeo e tante, troppe altre.
Abolizione del sistema elettorale proporzionale
Ulteriore conseguenza della spinta ad estirpare la democrazia dalla Costituzione fu la progressiva erosione della sovranità popolare, effettuata attraverso:
- lo smantellamento del sistema elettorale proporzionale,
- la limitazione delle preferenze sino alla loro completa soppressione,
- l’imposizione di un sistema sempre più maggioritario,
- l’attuale riforma costituzionale, che esclude dal voto interi organi costituzionali quali Senato e Province.
Si iniziò con una legge del 9 giugno 1991, che abolì le preferenze multiple perché imputate di favorire il voto di scambio. Fu così ridotta la possibilità per gli elettori di scegliere i propri rappresentanti, ma non fu ridotta la (falsa) piaga del voto di scambio, che sopravvive indisturbato sino ai giorni nostri.
Il primo forte colpo al sistema proporzionale venne inferto con la riforma delle elezioni di sindaci e presidenti di Provincia. Con il sistema a doppio turno, un consenso anche inferiore al 25% consentiva di avere in Consiglio la maggioranza assoluta.
Si avviò così il mantra della governabilità a scapito della rappresentanza.
Altro colpo al proporzionale venne portato con la Legge Mattarella del 4 agosto 1993, con cui si istituì un primo sistema proporzionale maggioritario per le elezioni politiche, solo corretto da un 25% di proporzionale.
Il cosiddetto Mattarellum inflisse però un altro colpo mortale alla sovranità popolare con l’istituzione delle liste bloccate per la quota proporzionale: un quarto dei deputati, in pratica, erano esclusi dalla scelta degli elettori e nominati dalle Segreterie dei partiti.
Questi due aspetti introdotti dal Mattarellum (maggioritario e liste bloccate) furono portati alla perfezione dalla successiva legge elettorale del 21 dicembre 2005, meglio nota come Porcellum, con cui:
- veniva totalmente tolta agli elettori la scelta dei propri rappresentanti,
- in nome della governabilità, veniva concesso un abnorme premio di maggioranza alla coalizione che conquistava la maggioranza relativa nelle elezioni politiche, non importa quanto minoritaria fosse tale maggioranza.
Entrambi questi aspetti vennero poi dichiarati incostituzionali della Corte Costituzionale con la sentenza del gennaio 2014, e conseguentemente risulta incostituzionale l’elezione dei Parlamenti eletti con il Porcellum. Realizzando così un paradosso unico al mondo: un Parlamento incostituzionale che lavora alla riscrittura della Costituzione.
La legge elettorale approntata dal Governo Renzi, il cosiddetto Italicum, naturale completamento della riforma costituzionale, ripropone quasi esattamente gli stessi aspetti dichiarati incostituzionali per il Porcellum, a parte l’introduzione (temporanea?) del ballottaggio e del premio di maggioranza, concesso non più alla coalizione ma ad un singolo partito (accentuando così l’aspetto maggioritario).
Nel frattempo, il 23 maggio 1995 fu emanata la legge più fortemente maggioritaria del sistema elettorale italiano, quella per l’elezione dei governatori delle Regioni: premio di maggioranza abnorme dato al vincitore dell’unico turno, senza necessità di ballottaggio, oltre alla possibilità di istituire le solite liste bloccate (chiamate questa volta “listini”, forse per un senso di celata vergogna).
Considerando che il nuovo Senato dovrebbe essere formato da consiglieri regionali e sindaci, entrambi eletti con sistema iper-maggioritario, anche questa Camera risulta iper-maggioritaria. Si ripete il solito mantra: sovranità popolare ridotta a favore della governabilità.
Mani pulite?
Come sia stato possibile un totale capovolgimento dell’assetto costituzionale italiano nel giro di pochissimi anni resta un mistero consegnato alla Storia. A distanza di un quarto di secolo da tali avvenimenti, l’opinione emergente è che la stagione di Mani Pulite svolse un ruolo decisivo nella raccolta del consenso necessario ad effettuare cambiamenti che, altrimenti, l’opinione pubblica avrebbe accolto come eversivi.
Che piaccia o meno, che si convenga o meno, fu il sistema giudiziario a far estinguere totalmente i partiti politici che avevano scritto la Costituzione. DC, PSI, PLI, PRI: uno dopo l’altro si estinsero, lasciando il posto a partiti che non rispondevano più agli interessi dei propri elettori ma a quelli dei propri finanziatori, che fornivano loro le risorse finanziarie indispensabili per realizzare un’adeguata campagna elettorale e dunque poter governare.
Nel periodo compreso tra l’arresto di Mario Chiesa (17 febbraio 1992) e la costituzione del Governo Dini (13 gennaio 1995) l’adeguamento del sistema istituzionale italiano ai principi neoliberisti fu pressoché concluso ed i binari furono tracciati indelebilmente per i successivi decenni.
Le pensioni
Con i binari tracciati dai trattati europei, si poterono allora affrontare con successo le altre riforme strutturali (così vengono chiamati i successivi smantellamenti del welfare) in merito a pensioni, lavoro e Costituzione. Tutte materie abbastanza coriacee per cui si rendono necessari più interventi e, per quella costituzionale, più tentativi. Si iniziò intanto con le pensioni.
In realtà un primo intervento sulle pensioni fu portato a compimento dal solito Amato il 30 dicembre 1992, innalzando l’età pensionabile da 60 a 65 anni e riducendo al contempo la rivalutazione della retribuzione pensionabile.
Il vero grosso colpo fu assestato l’8 agosto 1995 dall’appena eletto Governo Dini, che, sotto il vessillo dell’abolizione delle “baby pensioni” agli statali, varò il passaggio per tutti dal sistema retributivo al sistema contributivo. Imbroglio nominalistico per convincere ad accettare una forte riduzione delle prestazioni pensionistiche pubbliche e spingere verso una previdenza complementare privata.
Il colpo finale fu assestato poi dal Governo Monti con la famigerata Legge Fornero (approvata in soli 19 giorni, tanto per testimoniare quanto difficile e lungo (!) sia il processo di approvazione delle leggi con la Costituzione vigente).
La riforma Fornero determinò un ulteriore feroce inasprimento sia delle condizioni per l’ottenimento della pensione (età portata a 67 anni, la più alta in Europa), sia della loro entità. Inoltre, centinaia di migliaia di persone si ritrovarono contemporaneamente senza un posto di lavoro e senza una pensione (gli esodati).
Tale riforma era uno dei punti principali contenuti nella lettera inviata qualche mese prima dalla BCE al Governo italiano, lettera di cui parleremo nell’apposito paragrafo.
Il mercato del lavoro
Uno dei punti centrali della costruzione liberista è il lavoro-merce, al contrario della Costituzione italiana che pone il lavoro a fondamento dell’intera sua architettura, come proclamato già nell’art. 1.
E, come da celebre legge della domanda e dell’offerta, se c’è abbondanza di gente che offre il proprio lavoro e/o la domanda scarseggia, il costo del lavoro inevitabilmente si abbassa. E viceversa. In questi termini, dunque, la piena occupazione non poteva rappresentare l’obiettivo da raggiungere.
Ma mica la dicono così. Dicono che c’è una relazione inversa tra disoccupazione e inflazione. E, visto che uno dei fondamenti della religione dell’UE è la stabilità dei prezzi, il pensiero liberista fa conseguire che un alto livello di disoccupazione aiuta a tenere a bada i prezzi. Quindi, via libera a politiche di “flessibilità” e precarietà del lavoro. Culminate in Italia con il Jobs Act, che ha smantellato lo Statuto dei Lavoratori ed introdotto il licenziamento facile per tutti.
La precarizzazione del rapporto di lavoro iniziò con la Legge Treu del 24 giugno 1997, sancendo che il lavoro a tempo indeterminato non fosse più quello privilegiato, com’era stato sino a quel momento, ed introducendo varie forme di contratti “atipici”.
Fu poi la volta della Legge Biagi, con cui ci si spinse ulteriormente verso il lavoro-merce: la “flessibilità” divenne lo standard per l’ingresso nel “mercato” del lavoro, demonizzando la “rigidità” del sistema (ossia il posto fisso che aveva consentito di metter su famiglia e, spesso, di farsi una casa tramite il mutuo concesso da una banca, magari di proprietà pubblica).
Il 10 dicembre 2014 il colpo di grazia fu inflitto con il Jobs Act: una legge sul lavoro il cui principale scopo è quello di facilitare i licenziamenti, oltre a tutta una serie di misure accessorie a favore delle imprese e contro i lavoratori.
Le riforme costituzionali, quelle fatte e quelle tentate
Nella narrazione renziana il Governo a suo nome può vantarsi di essere stato l’unico ad aver fatto “le riforme”, costituzionali e non. Secondo questa narrazione, tanti ci hanno provato ma solo Renzi c’è riuscito.
Come abbiamo visto nel corso di questo scritto, tale narrazione dovrebbe risultare per quello che è: una fandonia. Gli ultimi quarant’anni hanno visto un susseguirsi di riforme tutte orientate nella stessa direzione che sta seguendo il Governo Renzi, che poi è quella voluta dai fautori del neoliberismo prima, dalle tecnocrazie europee poi, ed infine direttamente dai poteri finanziari.
È vero che in passato vi furono almeno tre tentativi di riformare pesantemente la Costituzione: due attraverso l’istituzione di commissioni parlamentari per le riforme (1993 e 1997) ed un’altra approvata dal Parlamento nel 2005, molto simile a quella attuale, poi però bocciata dagli elettori nel successivo referendum confermativo.
Con buona pace del nostro attuale premier, vorremmo informarlo tuttavia che la nostra Carta è stata in realtà cambiata 16 volte dal 1989, cioè da quando si decise di costituire l’Unione europea e di creare l’euro.
Tra queste revisioni, le più rilevanti sono state certamente la riforma del Titolo V del 2001 e l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione del 20 aprile 2012. Entrambe compiute essenzialmente dalle stesse forze politiche che adesso provano a completare l’opera con la riscrittura di 46 ulteriori articoli della nostra Carta.
Più in dettaglio, con la sconclusionata riforma del Titolo V si tentò di dare all’Italia una struttura federalista, sotto la pressione del consenso ottenuto dalla Lega Nord in quegli anni. La riforma si è rivelata per quello che era: un pasticcio fatto da politici dilettanti ed incompetenti.
Di quella corposa riforma ora dovrebbe restare la sola innovazione utile alla tecnocrazia europea: l’introduzione della normativa europea tra le fonti primarie che la nostra legislazione deve recepire.
Mentre però nella riforma del 2001 tale riferimento era appena accennato, in quella del 2016 il riferimento alla normativa europea è continuo ed assillante, tanto da mettere in totale imbarazzo la Corte Costituzionale, che sarà costretta a decidere sull’incostituzionalità di una norma facendo riferimento a due parti della Costituzione in totale contrasto tra loro: la prima, immutata, che fa riferimento ad un modello solidale, fondato sulla piena occupazione, sulla tutela del risparmio e sulla supremazia dello Stato sull’economia; la seconda che è basata invece sull’osservanza dei trattati europei, imperniati sulla stabilità dei prezzi, sulla lotta all’inflazione, sulla competitività e sulla subordinazione dello Stato all’economia.
La modifica più devastante per la Costituzione in realtà è quella effettuata dal Governo Monti nel 2012, passata nel silenzio più totale in quanto approvata con oltre i due terzi dalle due Camere e quindi senza che fosse necessario passare per il referendum popolare confermativo.
L’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Costituzione rappresenta l’affossamento quasi definitivo di quei principi, contenuti nella prima parte della Carta, che la rendono tuttora tra le più progredite al mondo.
Ma tale principio non è altro che la conseguenza della perdita della capacità dello Stato di emettere la propria valuta.
Il vincolo esterno viene codificato con nome e cognome (Unione Europea) nella riforma Renzi-Boschi del 2016.
Trattati, trattati e ancora trattati
Nel corso degli anni, la gran parte dell’attività legislativa italiana si è ridotta all’accoglimento (quasi sempre obbligatorio) delle direttive o alla ratifica dei trattati europei (mentre per i regolamenti europei ci viene finanche risparmiato il disturbo: entrano direttamente a far parte della nostra legislazione).
Una carrellata sulla varietà e quantità di tali trattati e direttive è al di fuori degli scopi di questo scritto. Ci interessa solo evidenziare l’effetto finale dell’insieme di tali trattati: lo svuotamento pressoché totale della nostra democrazia, ridotta ad eleggere parlamentari europei privi dell’iniziativa legislativa e con la sola facoltà di proporre modifiche di dettaglio alle leggi preparate dalla Commissione e dal Consiglio europeo.
Che ruolo resta quindi al Parlamento italiano? Quello di recepire il più velocemente possibile le norme e le direttive emanate dalla tecnocrazia europea. Il Parlamento diventa quindi un orpello pressoché inutile. È sufficiente un Governo dotato di ampi poteri che si limiti ad amministrare le politiche decise a Bruxelles o a Francoforte, ed in questo la riforma costituzionale che andremo a votare è perfetta.
La lettera della BCE
L’evidenza plastica della perfetta secondarietà degli organi eletti a livello nazionale si ebbe nell’agosto 2011. Con gli Italiani nel bel mezzo delle vacanze, venne recapitata al Governo Berlusconi una lettera segreta firmata dal governatore uscente della BCE, Trichet, e da quello entrante, Draghi. Con tale lettera venne dettato il programma politico per il successivo decennio.
Il primo effetto si ebbe con la sostituzione del Governo allora in carica e regolarmente eletto. Infatti, considerando la tiepidità con cui il Governo Berlusconi stava applicando le prescrizioni contenute nella lettera, in pochi mesi fu costretto alle dimissioni e sostituito da un Governo tecnico guidato da Mario Monti, che sino a pochi giorni prima neanche sedeva in Parlamento. Venne infatti nominato Senatore a vita dal Presidente Napolitano proprio il giorno prima di ricevere l’incarico di formare il Governo.
Ma ciò è quasi inessenziale ai nostri fini, perché dopo la caduta del Governo Monti e le successive elezioni del 2013, quelle non-vinte dal PD, ricevettero l’incarico di premier Enrico Letta prima e Matteo Renzi poi, i quali continuarono ad eseguire senza soluzione di continuità il programma indicato nella lettera della BCE. Paradigmatica esemplificazione della scarsa considerazione che la tecnocrazia europea ha dei Governi eletti democraticamente: non importa che il gatto sia bianco o nero, purché prenda il topo.
E neanche una sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittime le modalità dell’elezione del Parlamento in carica valse a fermare la macchina delle riforme strutturali e costituzionali messe in moto dalla lettera della BCE.
Per amor di completezza, riassumiamo qui i contenuti di tale lettera, praticamente ormai tutti realizzati dagli ultimi tre Governi o, comunque, in via di realizzazione:
- revisione delle norme che regolano l’assunzione ed il licenziamento dei dipendenti (realizzata con il Jobs Act),
- ulteriore inasprimento dei criteri pensionistici (realizzato con la Legge Fornero),
- introduzione della clausola di riduzione automatica del deficit attraverso tagli orizzontali alla spesa pubblica (realizzata nelle Finanziarie 2011 e successive),
- stretto controllo dell’indebitamento e delle spese degli enti locali (realizzato con l’inasprimento del Patto di Stabilità),
- ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva in modo da ritagliare i salari sulle esigenze specifiche delle aziende (realizzata con la Finanziaria 2011),
- riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio (realizzata con il pareggio di bilancio in Costituzione),
- abolizione o fusione di alcuni strati amministrativi intermedi (realizzata con l’abolizione delle Province),
- necessità di una radicale strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali attraverso privatizzazioni su larga scala (in arrivo: riforma costituzionale).
La soluzione finale: la riforma Renzi-Boschi
Il 14 aprile 2016 si giunse al termine di questo percorso, vecchio di quasi quarant’anni ma propagandato come esempio di cambiamento e di nuovismo: la riforma che abbiamo continuato a chiamare per semplicità Renzi-Boschi, ma che in realtà ha molti padri sparsi tra ieri ed oggi, come l’ormai famoso documento datato 28 maggio 2013 della più grande banca d’affari del mondo, J.P. Morgan.
Cosa diceva tale documento? Suggeriva agli Stati europei, soprattutto a quelli del sud, di sbarazzarsi delle proprie Costituzioni, ritenute un ostacolo alla piena realizzazione del libero mercato; troppo socialiste, con Governi deboli e troppi diritti per i cittadini, finanche quello di protestare in caso di leggi non gradite…
Va da sé che l’unica sensata possibilità di cambiamento consiste nel fermare questo svuotamento democratico in atto da quarant’anni impedendo la conferma della riforma Renzi-Boschi-Napolitano-J.P. Morgan.
In realtà il quesito su cui siamo chiamati ad esprimerci il 4 dicembre, a prescindere da quanto troverete scritto sulla scheda elettorale, si può riassumere in questa domanda:
“Volete voi consegnare definitivamente la Repubblica Italiana ai poteri finanziari internazionali?“
Sta a noi rispondere con un sì o con un no.